Ecomuseo Billese | Distretto Culturale Biellese

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Ecomuseo Valle Elvo e Serra

L'Ecomuseo come spazio formativo permanente

Parole difficili
Negli ultimi 15 anni la parola “ecomuseo” ha avuto molto successo in Italia.
In Francia, nel clima eretico della nascente Nouvelle muséologie, il suo inventore Hugues de Varine, allora direttore dell’Icom, tentava nel 1971 una difficile fusione tra le parole “ecologia” e “museo”, così ufficializzata qualche mese dopo dal ministro per l’ambiente francese Poujade: “noi ci muoviamo verso quello che alcuni definiscono già ecomuseo, un approccio vivente attraverso il quale il pubblico, e i giovani in primo luogo, si riapproprieranno della grammatica di base dell’uomo, delle sue cose e del suo ambiente visti nella loro evoluzione”.
Trent’anni dopo, quando lo stesso inventore parlava dell’ecomuseo in termini di “museo comunitario”, la Convenzione europea del paesaggio invitava gli Stati membri del Consiglio d’Europa a porre al centro delle loro politiche un concetto molto vicino a quest’idea: «“Paesaggio” designa una parte di territorio così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere risulta dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni».
Così definito, il paesaggio tendeva a coincidere con il significato del prefisso “eco” - dal greco oîkos, abitazione, ambiente di vita - anteposto da De Varine alla parola “museo”.
Tuttavia, ecomuseo e paesaggio non erano comunemente intesi in questi termini, essendo il primo ancora vincolato all’idea di un’istituzione statica ed elitaria e il secondo considerato sinonimo di panorama, veduta, cartolina.
Cosa ci hanno insegnato 15 anni di esperienza sul campo?

Una “zona di contatto”
Chiunque abbia provato a declinare l’idea ecomuseale nel proprio contesto, con gli elementi lì disponibili, sa che l’ecomuseo non è una ricetta, un risultato, ma una prospettiva, un percorso, una “navigazione a vista”.
All’inizio della navigazione, l’ecomuseo era per me un possibile campo di applicazione della mia specifica formazione di architetto, ma attraverso l’esperienza ecomuseale ho perso per strada l’architettura come disciplina recuperando il fare architettura come una delle tante competenze naturali degli esseri umani.
Il progetto Ecomuseo Valle Elvo e Serra riguarda la valle più occidentale del Biellese, definita dalla cerchia delle Alpi verso la Valle del Lys e dalla grande morena laterale del ghiacciaio balteo verso l’Eporediese.
Nel 1997, una serie di presentazioni del programma europeo Leader II nei 15 paesi delle comunità montane Alta e Bassa Valle Elvo fece incontrare e conoscere una decina di persone che iniziarono a frequentarsi informalmente e diedero vita, l’anno successivo, all’Associazione per l’Ecomuseo Valle Elvo e Serra - Onlus.
L’Associazione ha successivamente aderito al nascente Ecomuseo del Biellese e oggi rappresenta diversi gruppi di lavoro che si occupano direttamente dello sviluppo delle tematiche locali e gestiscono una decina di siti museali.
Il rapporto umano, l’amicizia e il sentirsi parte di un’azione comune è stato e rimane il vero motore del nostro ecomuseo; nessuno di noi sapeva dove saremo arrivati, ma sentivamo di avere una responsabilità diretta verso i luoghi che ci erano familiari e intuivamo che l’ecomuseo poteva contenere e interpretare tale aspirazione.
Il colloquio internazionale di Argenta del 1998 ci fece conoscere alcuni protagonisti di percorsi ecomuseali che ben rappresentavano le nostre idealità.
Li invitammo in Valle Elvo due anni dopo a raccontare direttamente la loro storia, e per noi fu un’occasione importante per renderci conto del tempo e dell’impegno necessari per fare dell’ecomuseo un reale processo di presa di coscienza del proprio passato, nella prospettiva di un futuro possibile.
L’intuizione prendeva la forma di un’utopia concreta e il nostro percorso poteva iniziare con l’esplorazione del territorio.
Alcuni luoghi - per i francesi le “antenne”, per noi le “cellule” - sembravano esprimere più di altri le specificità del nostro contesto naturale e culturale, ma era come trovarsi di fronte a siti archeologici ancora da scavare: gli ultimi alpigiani di Bagneri non ricordavano più chi erano stati, nessuno sapeva cos’era la grande costruzione della Trappa, pochi riconoscevano nella Bessa una grande miniera a cielo aperto di epoca romana, le fucine dell’Ingagna parevano provenire da un passato remoto.
Così, nei primi anni non abbiamo fatto altro che raccogliere indizi, ascoltando i luoghi e le persone in un percorso di ri-conoscenza dei nostri patrimoni materiali e immateriali.
Poi è iniziato il recupero, in parte svolto direttamente con il lavoro dei volontari e in parte con le risorse comunitarie, regionali e locali, delle strutture funzionali allo sviluppo delle attività di conservazione, gestione e interpretazione di tali patrimoni: le ricerche sull’architettura rurale, la religiosità popolare, l’emigrazione e la Resistenza, la catalogazione e l’allestimento delle collezioni di attrezzi legati alla ricerca dell’oro e alla lavorazione del legno e del ferro, le mostre sui “personaggi” della valle, le visite guidate e le attività di accoglienza.
Sono passati 15 anni, un tempo lungo per la politica, per gli specialisti, per l’architetto che ero, ma molto breve per gli abitanti che sanno stare al proprio mondo, autori ed espressione di un paesaggio.
Un paesaggio nel quale siamo rientrati alternando ricerca e azione fino a sentircelo addosso come un abito, recuperando la competenza propria degli abitanti nel saperlo leggere e interpretare.
Oggi il nostro territorio non è più un limite entro il quale esercitare i nostri diritti di residenti, da difendere e valorizzare solo verso l’esterno, ma uno spazio da vivere e condividere, raccontare e continuare: una “zona di contatto” tra persone diverse che non sentono più il bisogno di musei, aree protette, riserve indiane.

Identità, diversità, comunità: il metodo del “cantiere orizzontale”
Nel ridefinirlo “museo comunitario”, De Varine considera l’ecomuseo l’università popolare per eccellenza, un catalizzatore della cultura vivente, una finestra aperta sul mondo.
Nell’Incontro Nazionale Ecomusei di Biella del 2003 si parlò degli ecomusei come di luoghi dove si riconoscono le diverse radici europee (Cláudio Torres), si costruiscono risposte concrete all’omologazione (Valter Giuliano), si riflette sui beni e sui mali delle nostre culture (Federico Luisetti), si governano le contaminazioni (Piercarlo Grimaldi).
Forse oggi potremmo rinunciare a dire cos’è o non è un ecomuseo, ma rimane la necessità di chiarire di quale comunità parliamo.
Quando si scoprono le proprie radici, è naturale la nascita di un sentimento di orgoglio e difesa verso chi potrebbe inquinare un’origine che, a prima vista, pare incontaminata.
Si vorrebbe congelare una situazione che, per sua natura, è in continua evoluzione, contaminata dalle nostre stesse mani che l’hanno messa in luce.
Anche per noi è arrivato quel momento: limitarsi a custodire la memoria o interpretare e mettere in gioco i riferimenti identitari?
La scelta non è stata né immediata né univoca: pur non rinunciando alla conservazione delle testimonianze del passato indispensabili alla comprensione del processo evolutivo del territorio, abbiamo provato a utilizzare l’identità come moneta di scambio.
Lo spazio in cui si è svolto l’esperimento ha preso il nome di “cantiere orizzontale”: una grande costruzione abbandonata - la Trappa di Sordevolo - dove abbiamo verificato la possibilità di esistenza di una comunità di persone diverse per età, provenienza, lingua, cultura e formazione.
Ogni partecipante al “cantiere orizzontale”, sperimentato tra il 2000 e il 2004 attraverso un campo di lavoro estivo organizzato in collaborazione con il Servizio Civile Internazionale, era invitato a uscire dalla propria abituale “specializzazione” per assumere il ruolo di “abitante” della Trappa.
Il cantiere della Trappa non si era mai concluso e per più di due secoli si erano depositate e sovrapposte le tracce dei muratori, degli operai, dei monaci, degli alpigiani, dei disertori, dei resistenti, dei ladri, dei curiosi e degli innamorati.
Il “cantiere orizzontale” non era solo il luogo fisico della costruzione ma anche uno spazio di elaborazione di idee, dove la gerarchia lasciava spazio alla partecipazione, l’omologazione all’appartenenza, i fini non giustificavano i mezzi ma erano i mezzi a definire i fini, non si viveva per costruire ma si costruiva per vivere.
È stato un esperimento di riappropriazione di uno spazio privo d’uso, come ve ne sono tanti dentro i nostri paesaggi in rovina, per recuperare l’esperienza perduta dell’abitare e per immaginare, in quella veste e per quei luoghi, un nuovo futuro.
È diventato un metodo di lavoro che ha gradualmente portato alla consapevolezza del senso e delle potenzialità di una “comunità” fatta di persone diverse che decidono liberamente di mantenere qualcosa in comune per il bene di tutti.
Un’intenzione che rimanda all’antico significato degli usi civici e delle proprietà collettive che qui, come altrove, regolavano l’equilibrio tra le risorse naturali e le attività umane, ma anche all’istituzione nel 1971 (lo stesso anno di nascita dell’“ecomuseo”) delle Comunità Montane che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto ricostruire un legame funzionale e un senso di appartenenza tra le popolazioni e i territori, senza i quali non è possibile immaginare società locali più eque e solidali.

Progettare il futuro “qui e ora”
Nel corso della nostra esplorazione abbiamo, a un certo punto, sentito il bisogno di un “serbatoio”, di un’estensione delle nostre memorie individuali che, da sole, non erano più in grado di contenere, registrare e orientare la nostra ricerca.
Era necessario uno strumento in grado di intrecciare non solo i segni naturali lasciati dai cicli geologici, dai fenomeni atmosferici, dalla vita vegetale e animale con i segni culturali di chi prima di noi aveva vissuto quei luoghi, ma anche con le tracce che noi stessi stavamo lasciando.
Com’era possibile, inoltre, tenere insieme i percorsi individuali e collettivi salvaguardando le differenze?
Promosse nel 2002 dal Laboratorio Ecomusei della Regione Piemonte sul modello delle parish maps inglesi, le “mappe di comunità” parevano lo strumento ideale a far emergere i patrimoni locali di un territorio e la complessa trama di relazioni materiali e immateriali che li lega alla vita delle persone che lo abitano.
A partire da tale suggestione abbiamo iniziato a sperimentare sul campo nuove forme di mappe che si adattassero al nostro percorso.
Preceduta da alcuni frammenti realizzati nell’ambito del “cantiere orizzontale”, che hanno utilizzato forme di rappresentazione diverse dalla grafica bidimensionale (il racconto, l’azione teatrale, il video), la nostra “mappa di comunità” ha assunto nell’estate 2005 la forma del viaggio: una carovana di tre settimane che ha attraversato la Valle Elvo e la Serra alternando le escursioni di paese in paese alle attività di restituzione teatrale del lavoro dell’ecomuseo.
Camminando dietro un asino ci siamo ricordati di avere un corpo e cinque sensi, ed è forse questa esperienza di ri-abilitazione, iniziata quasi per gioco, quella che meglio rappresenta la nostra visione del progetto ecomuseale: un lento viaggio che intreccia la memoria delle persone al senso dei luoghi, gli artefici del passato ai protagonisti del futuro.
Se ciò che chiamiamo istinto, intuizione, sesto senso è la somma delle memorie dei nostri nonni registrate nel nostro corpo, la mappa di comunità può diventare il progetto di futuro dei nostri nipoti: uno strumento utile a ricostruire legami oggi nascosti, a interrogare e mettere in tentazione luoghi e persone, far emergere quali limiti hanno, cosa possono sopportare e cosa potrebbero diventare.
È sempre più evidente che tale progetto ha poco a che vedere con la crescita del prodotto interno lordo, ma tende ad un nuovo stile di vita che è stato definito “decrescita felice”.
In questa prospettiva ha ancora senso parlare di “sviluppo” se ci si riferisce alla dimensione locale e ai concetti di auto-sostenibilità e responsabilità individuale: uno “sviluppo” i cui prodotti non sono solo i vini, i formaggi o i salumi attraverso i quali i territori vengono oggi venduti, ma anche chi ci sta dietro: i nuovi abitanti in grado di realizzarli con la terra di quel paesaggio, senza compromettere la possibilità delle generazioni che lo erediteranno di continuare a farlo.
Estremamente fragile se viene cavalcato dagli eletti e pilotato dai tecnici, l’ecomuseo è un efficace strumento per la costruzione del futuro di una comunità nel suo territorio se rimane nelle mani degli abitanti e ne amplifica la voce.

I prossimi 15 anni

Questo testo è stato scritto sette anni fa in occasione di un seminario dal titolo “Giovani tra identità locale e coscienza europea”.
Rileggendolo ho pensato che fosse utile riproporlo oggi, in un momento in cui la nostra “navigazione” è, più che mai, “a vista” (ma quando non lo è stata?).
È un testo che cerca di chiarire, prima di tutto al suo autore, le ragioni di un percorso che deve oggi confrontarsi con un’evoluzione che riguarderà solo in parte coloro che lo hanno iniziato.
Occorre quindi porsi nella prospettiva di chi, in alto mare, non rinuncia al piacere del viaggio ma affida fiducioso il timone ai giovani abitanti della stessa barca.
Tra 15 anni saremo vecchi.

Documenti allegati

 
Ecomuseo della Civiltà Montanara. Veduta di Bagneri
 
 

 

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